
Il problema della sinistra italiana (ma non solo italiana: diciamo che qui da noi è venuto a maturazione prima) è di avere sviluppato una visione progressivamente sempre più statica dei processi economici, sociali e politici e dei nostri rapporti con essi. Evidentemente è una conseguenza della marginalità: rimanendo al margine dei fenomeni, in delle nicchie autoreferenziali, finiamo per non percepirne i cambiamenti qualitativi, che pure sono enormi. Insomma: i cattivi sono sempre i cattivi (“neoliberisti”, ci piace chiamarli con colpevole approssimazione), l’UE è sempre quella del 1992, i sindacati sono quelli della “concertazione” dominati dal centrosinistra, Confindustria detta l’agenda a tutti quanti, ecc. Eppure il paese (nel quadro europeo), a partire dalla caduta dell’ultimo governo Berlusconi è entrato in una fase di trasformazioni accelerate, caratterizzata da drastici salti qualitativi che si susseguono a ritmo sincopato.
A fronte di questi cambiamenti, a ciascuno dei quali fa riscontro una corrispondente riduzione dell’influenza delle istanze di progresso a livello sociale, insistiamo nel proporre identiche chiavi di lettura e identiche parole d’ordine. Si prende un documento del 2011, si cambia “Monti” con “Draghi” e si va avanti. Nel farlo – questo è il peggio – ci sentiamo riconfortati: abbiamo sempre avuto ragione e siamo sempre gli stessi. Ebbene: se la prima affermazione può anche essere confortata da un alone di legittimità (a grandi linee, sulle questioni di principio e con la genericità nella quale sguazziamo da quando abbiamo abbandonato i buoni insegnamenti della scuola togliattiana), per quanto riguarda la seconda si dovrebbe concludere che, visti i risultati, il male sia proprio che siamo sempre gli stessi mentre tutto intorno a noi cambia con rapidità mai vista prima.
Nel frattempo, nel paese si è saldato un neocorporativismo strisciante, capillare, che affonda su potenti radici culturali. Un neocorporativismo di cui noi pure siamo parte, una scomposizione identitaria della comunità politica di cui noi pure siamo espressione.
Ecco perché quello che facciamo non funziona mai. Non è questione di episodi: il tal partito che si sottrae, il tal dirigente che coltiva il proprio personalismo, ecc. Si tratta invece di uno strutturale deficit culturale cui deve dar risposta uno straordinario sforzo collettivo di adeguamento culturale e teorico.
In sintesi: non si può essere avanguardia se si ha una forma mentis di retroguardia. E poi occorre adeguare obiettivi e prassi alla realtà che è venuta maturando, la cui emersione non avremmo probabilmente potuto evitare anche azzeccandole tutte, ma che certamente abbiamo invece aiutato nostro malgrado a prendere forma e nella quale ci siamo tutte e tutti fattualmente integrati, con lo spirito di chi sta annegando e a un certo punto smette di lottare.
La nostra sconfitta è un fatto ed è semplicemente puerile negarla. Però c’è anche una buona notizia: la Storia non è finita.