La “seconda guerra fredda” non esiste e chi sostiene il contrario fa propaganda per gli americani

Che la guerra fredda sia stata storicamente un’invenzione occidentale, è cosa nota. Ci si ricorda meno degli insistiti tentativi sovietici di sottrarsi alla logica dei blocchi, culminati in una incredibile domanda di adesione dell’URSS alla NATO, ventilata per la prima volta nel 1949 e infine avanzata formalmente nel 1954 (per essere ovviamente respinta con imbarazzo).

Il presupposto della guerra fredda era lo scontro di sistemi: occorreva tracciare una chiara linea di demarcazione tra il “mondo libero” (capitalista) e i paesi socialisti, che rendesse in pari tempo lecita e moralmente accettata la repressione delle sinistre in seno ai paesi gravitanti nell’orbita occidentale (a cominciare dagli USA, dove la denuncia di un oggettivamente inesistente pericolo comunista interno fornì l’alibi al maccartismo).

In sostanza, i due principi chiave della politica americana di allora, il “containment” di George Kennan e il “rollback” di John Foster Dulles, si giustificavano nella loro interezza solo determinando una demarcazione netta tra un “noi” e un “loro”, in virtù della quale disciplinare l’opinione pubblica, gli sforzi della nazione e dei suoi alleati.

La base oggettiva su cui si edificò il successo americano nel “costruire” la guerra fredda fu che effettivamente esistesse, tra est e ovest, una netta divisione in termini di modello sociale applicato. Malgrado il blocco occidentale fosse tutto fuorché monolitico, e malgrado gli scambi economici tra est e ovest proseguissero adottando la forma delle transazioni di mercato, la logica dei blocchi tenne perché le classi dirigenti di tutti i paesi occidentali avevano paura del socialismo.

Guardando all’attualità, non si può non notare la radicale differenza di scenario. Esistono oggi tre grandi potenze, in termine di produzione e scambio di ricchezze – gli USA, l’Unione Europea e la Cina – le quali definiscono i loro rispettivi sistemi socio-economici con formule che hanno un denominatore comune: “economia di libero mercato” i primi (con ambizioni paradigmatiche), “economia sociale di mercato” la seconda, “socialismo di mercato” la terza. Il minimo comune denominatore è l’accettazione delle dinamiche del mercato. Quello che cambia è sostanzialmente l’approccio all’organizzazione del rapporto tra sviluppo economico e autorità politiche. In ogni caso, i tre grandi blocchi economici del nostro tempo interagiscono, appunto sul piano economico, secondo regole comuni, con comuni strumenti ed entro comuni istituzioni (WTO, Banca mondiale, ecc.).

Malgrado la permanente difficoltà dell’Unione Europea di emanciparsi del tutto da un nesso organico sempre più fragile, ma non ancora superato, con gli Stati Uniti, la relazione tra le tre grandi concentrazioni economiche del nostro tempo procede secondo tempi e modalità dettati dalle dinamiche del mercato, prima e assai più che dalla politica. Le recenti evoluzioni nel rapporto tra Cina e Stati Uniti, e quindi tra Cina e asse franco-tedesco alla guida dell’UE, non contraddicono l’affermazione.

Vi è poi una quantità di potenze regionali (Giappone, Russia, Brasile, Turchia, Iran, India, Pakistan, ecc.) che interagiscono in modo discontinuo con i tre attori principali. E vi è una dimensione politica del confronto tra interessi a volte componibili, a volte inconciliabili, in cui interviene una incredibile quantità di variabili strutturali e sovrastrutturali, che rendono pressoché impossibile ridurre il mondo contemporaneo a un sistema binario.

Eppure, un dato generalizzabile emerge: l’egemonia planetaria degli Stati Uniti è in declino, mentre nuovi attori vanno guadagnando spazio e vecchie potenze rispolverano mai dimenticate ambizioni.

Che la loro egemonia sia in declino, gli USA lo sanno perfettamente. E collocano l’inizio di tale declino non in corrispondenza con l’avvio della recente ascesa cinese (che pure è un importante fattore di approfondimento della tendenza), ma negli anni della crescita del secondo dopoguerra, quando la rinascita economica del pianeta – e innanzitutto dell’Europa – cominciò a erodere gradualmente la preminenza americana. L’opportunità di rilancio del loro primato offerta dal crollo del campo socialista l’hanno sprecata e ne hanno chiarissima consapevolezza.

A Washington hanno dunque bisogno di dar vita a un nuovo paradigma da guerra fredda, una nuova demarcazione in grado di giustificare la riaffermazione di un primato declinante e di schiacciare, delegittimare le ambizioni concorrenti. In questo senso, la collocazione dell’Unione Europea è fondamentale. Se il continente europeo rimane saldamente ancorato alla prospettiva atlantica, le probabilità che il XXI secolo sia un “nuovo secolo americano” saranno altissime. Se invece, secondo il disegno franco-tedesco, l’UE diventa l’occasione per le classi dirigenti continentali di coltivare ambizioni autonome, allora lo scenario cambia del tutto.

Ed ecco dunque i ricatti della guerra commerciale con la Cina, il CAI e l’ostruzionismo americano contro il CAI, la guerra in Ucraina e il tentativo di rilancio del ruolo europeo di quella NATO che Macron, appena nel 2019, ebbe a definire “cerebralmente morta”. In questo senso, credo, andrebbero lette le dichiarazioni di ieri di Draghi (difesa comune europea, ma organicamente inquadrate nella logica dell’Alleanza Atlantica) e, conseguentemente, il ruolo che l’attuale governo sta facendo assumere all’Italia rispetto all’Europa, agli USA e al mondo intero. Altro che “asse della politica mondiale spostato sul Pacifico” e varie, grossolane e mistificanti semplificazioni sul tema!

Dalla loro, gli USA hanno carte di straordinaria rilevanza: la moneta di riferimento dell’economia mondiale (mentre l’euro, per essere competitivo, deve essere supportato da accurate politiche di tutela del potere d’acquisto e da meticolose strategie anti-inflazionistiche, e mentre il renminbi non è nemmeno pienamente convertibile), l’economia cardine della finanza mondiale, un’influenza determinante sulle istituzioni internazionali, il pieno controllo della NATO, un dispiegamento strategico di truppe su scala globale che non ha eguali, ecc.

Tutto questo, però, non è sufficiente. Serve la mobilitazione dell’opinione pubblica interna e internazionale. Serve il consenso. Servono un “noi” e un “loro”. Serve una dicotomia da poter propagandare e spiegare in televisione, che offra una spiegazione plausibile in termini finanche “moralistici” alle ambizioni americane e alle scelte politiche che esse determinano.

Ed ecco saltar fuori la “seconda guerra fredda”. I valori e il modo di vita occidentale sono minacciati da un nuovo nemico: il blocco eurasiatico con a capo Cina e Russia. La seconda, la Russia, torna assai comoda: è un gigante dai piedi di argilla con un volume economico pari a quello dell’Olanda più la Svizzera, ma con alle spalle un secolo di demonizzazione capillare e sistematica, molto utile nella costruzione dell’antagonista, ed è inoltre abbastanza debole da essere messa facilmente con le spalle al muro e determinare fruttuosi momenti di frattura nelle relazioni internazionali.

Il fatto è che la “seconda guerra fredda” non esiste. Non ci sono giustificazioni fattuali di alcun tipo per sostenere un simile paradigma interpretativo del mondo contemporaneo. L’unico, flebile elemento menzionabile è costituito dal sistema istituzionale cinese, al vertice del quale si colloca il Partito Comunista. Si dà però il caso che non solo i cinesi siano stati un artefice decisivo nella sconfitta dell’URSS nella guerra fredda (quella vera) – la “Teoria dei tre mondi” maoista, forgiata appositamente per equiparare Mosca agli USA e giustificare l’alleanza antisovietica con questi ultimi, viene ancora regolarmente evocata come uno dei fondamenti della politica estera di Pechino –, ma che teorizzino e pratichino con grande coerenza la non esportabilità del loro modello sociale, dando vita ad alleanze internazionali che tutto sono meno che ideologiche, e comunque sempre inquadrate in logiche – pur temperate da una peculiare visione politica – di mercato.

Di qui una conclusione inevitabile: far propaganda al teorema della inesistente “seconda guerra fredda”, non importa se sul versante del sostegno alle posizioni americane o su quello della simpatia per la Cina, significa rendersi (volontariamente o oggettivamente) propagandisti del disegno egemonico degli Stati Uniti. Se scardinare la logica dei blocchi era di vitale importanza quando la guerra fredda esisteva davvero, rifiutarne l’assurda riproposizione nel mondo contemporaneo rappresenta forse il principale atto emancipatorio da compiere, a livello politico, per costruire un antagonismo vitale rispetto all’ordine dominante.


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